La Stagione era appena nata.
Prima, vera, stagione.
L’aria diveniva limpida e il sole si posava caldo e immobile sulle cose, risvegliandole da quel torpore grigio e dimenticato, sgretolando la pelle morta di un inverno appena passato.
Sotto di essa rinascevano fiori, frutti e insetti.
Soprattutto insetti.
Formica si stiracchiò e sbadigliò, l’odore pungente del bosco era strisciato da sotto la piccola porticina del suo monolocale in affitto, per dirle che il lungo riposo era ormai terminato.
Avvolse attorno al collo la sciarpa di seta bianca, regalo della nonna, calzò tre paia di ciabatte identiche e uscì nella radura.
Era la sua prima primavera fuori dal formicaio familiare e della vita non sapeva quasi nulla, era così emozionata che le tremavano le antenne.
Lo stupore e la meraviglia di una formica sono talmente grandi che non si possono descrivere, quindi dirò soltanto che rimase immobile a bocca aperta sin quando le mandibole non iniziarono a farle male.
Era tutto come aveva sognato, solo quel tappeto d’aghi di pino la inquietava un po’: c’era il rischio di mettere una zampa su qualche goccia di resina e restare invischiati, per poi ritrovarsi dopo milioni di anni esposti nella teca di un museo di provincia.
Lo zio Bill diceva sempre che se si vuole cambiare la propria vita un po’ bisogna rischiare, ed era salito su una grande nave diretta oltre l’oceano.
Nessuno aveva più avuto sue notizie, ma solo perché le formiche non sanno scrivere e soprattutto non arrivano a imbucare le cartoline.
Facendo attenzione a dove metteva le zampe si avventurò tra i funghi severi e le radici degli alberi coperte di muschio soffice.
“E’ tutto così enorme e maestoso!” pensò.
Vide una grande pigna masticata immobile tra l’erba, dall’alto le voci degli scoiattoli si complimentavano l’un l’altro per l’eccellente spuntino.
Udì ronzii, gracidii, sfarfallii, scalpiccii, cinguettii e in un istante s’accorse che la foresta era viva di suoni.
Uno stridere convulso, un susseguirsi di richiami tra le fronde abbaglianti, ma tra tutto questo spiccava una musica; un canto melodioso che pareva l’anima stessa della vita in festa.
Formica si fermò ad ascoltarlo.
Accanto a lei, curvo e intabarrato nella sua scorza luccicante, un verde maggiolino andava di fretta a testa bassa.
«Mi scusi, posso chiedere? » fece la formica alzando una zampetta.
«No, no! Non ho tempo!» grugnì quello passando oltre.
Formica ci rimase male «Che gran cafone.» pensò.
La musica serpeggiava tra i rami spandendosi sempre più forte e Formica era sempre più curiosa di sapere chi fosse l’artista in grado di suonare con tanta maestria.
Provò a chiedere informazioni a un lepidottero balbuziente, a un ragno elegante nel suo completo gessato, a un oryctes nasicornis che la caricò e la mise in fuga, a una farfalla dalle ali color del cielo, ad un’ape ronzante dal minaccioso pungiglione ma tutti erano così indaffarati che non si degnarono nemmeno di ascoltarla così come parevan sordi al misterioso canto.
Nessuno le rispose.
Stava iniziando a domandarsi se la foresta fosse davvero il luogo giusto dove vivere quando un rumore alle sue spalle la fece voltare di scatto: Cicala sedeva su un pezzo di corteccia con il violino in mano, intento a impeciare l’archetto.
Formica si avvicinò e lo salutò timidamente, già pronta alla fuga visto i precedenti.
Questi sollevò i grandi occhi color cicala, ma molto vispi, e sorrise chinando gentilmente il capo.
«L’avete sentita anche voi quella musica soave?» domandò Formica con i peli dell’addome che formicolavano, è proprio il caso di dirlo, per l’emozione di aver trovato finalmente qualcuno con cui parlare.
«Non solo l’ho sentita.» rispose Cicala «Essa è frutto del mio cicalio!»
Alzatosi veloce in piedi e scostato il mantello d’ali, Cicala intonò il suo canto accompagnandosi con il lamento armonioso dello strumento.
Formica lo trovò così affascinante che per poco non svenne.
Restarono così sino a sera: Cicala che suonava, contento di aver finalmente trovato qualcuno disposto ad ascoltarlo, e Formica ammaliata dall’aver incontrato qualcuno che finalmente si lasciasse ascoltare.
Inutile dire che tra i due nacque un amore devastante, di quelli così immaturi e inconsapevoli da far roteare le antenne, di quelli dove ognuno sta bene così e dell’altro nemmeno s’accorge. Ma che gioia non esser più soli!
Durante il giorno Cicala suonava e Formica un po’ ascoltava e un po’ danzava, goffa, perché già è difficile con due, figurarsi con sei zampe…
Si divertivano un mondo ed erano felici, e nulla importava se tutti gli altri insetti scuotevano il capo o urlavano «Sfaticati!»
La sera facevano lunghe passeggiate sotto la luna e Cicala parlava dei loro futuri viaggi, di cosa le avrebbe regalato una volta arrivato il successo, vantandosi della propria musica e lamentando spesso le poche possibilità concesse ad un insetto di registrare un doppio cd live, un problema non da poco, visto che quel prodotto vende tantissimo.
Formica ascoltava incantata e tra una fantasticheria e l’altra le giornate si allungarono. L’estate crebbe nel grembo umido della primavera e poi esplose con la sua calura che bolliva i funghi e prosciugava l’acqua delle pozze.
La terra prese a scottare come se avesse la febbre e il bosco si riempì di asciugamani e tovaglie colorate che quelle strane creature chiamate turisti stendono sull’erba prima di mettersi a mangiare.
Cicala ogni giorno suonava caparbiamente per loro, ma nessuno pareva ascoltarlo.
Formica cercava di attirare l’attenzione, invano, rischiando spesso di essere schiacciata.
Poi, un giorno, mentre sgambettava su una tovaglia di plastica rossa e gialla, tra una bottiglia di the freddo e un vasetto di yogurt, trovò un’enorme briciolina di pane profumata e croccante.
Fu allora che qualcosa in lei scattò. Qualcosa che risiede più nell’istinto che nell’esperienza acquisita nei lunghi giorni di vita da imenottero. Si sentì scombussolare tutto d’un tratto. Si lanciò a capofitto sulla briciola e l’afferrò, sollevandola senza fatica iniziò a correre.
Non aveva mai rubato prima d’ora.
Scappò.
Corse, corse, corse, sfilando accanto a Cicala che intento in una toccata non si accorse della sua fuga.
Arrivò al piccolo monolocale, aprì l’armadio e ci cacciò dentro la briciola.
Solo allora si fermò a rifiatare confrontandosi con lo strano e recente pensiero che gliene servissero molte altre.
Guardò il calendario, era la fine di agosto.
Per qualche motivo, nonostante all’interno della tana il termometro segnasse trentaquattro gradi, Formica iniziò a tremare.
Quando Cicala tornò a casa la sera, iniziò ad esporle il suo nuovo progetto di musica concettuale per calabroni ed affrontò il problema di trovare una nuova muta di corde, economiche ma resistenti.
Presa dal suo solito monologare non s’accorse che Formica, turbata, aveva apparecchiato sulle sedie. Si sedette sulla zuppa e i due litigarono. Cicala uscì sbattendo la porta urlando che andava a comprare le sigarette.
La mattina dopo Formica si svegliò presto e il suo primo pensiero non fu per Cicala, che le dormiva accanto a pancia all’aria dopo aver scoperto che nel bosco non c’era un distributore nemmeno a pregare, ma per la briciola di pane.
Uscì di corsa: forse sei zampe ti impacciano quando balli ma quando corri sono proprio utilissime.
Raggiunse la radura dei pic-nic e si mise alla ricerca di cibo.
Qualsiasi cosa andava bene: un pezzo di polpetta, una fragola mezza mangiata, un seme di anguria ottimo da bollire.
Non appena riusciva a impossessarsi di qualcosa, lo portava a casa e lo nascondeva nella dispensa.
Andò avanti così per settimane.
Lei e Cicala non parlavano quasi più e non dormivano nemmeno più assieme, perché la stanza da letto era tanto piena di cibo da non riuscire ad entrarci.
«Così non va!» disse Cicala quando vide Formica rincasare con un biscotto sulle spalle.
«Anf, Anf, Anf!» fece Formica posando il biscotto che rotolò e travolse una montagna di noccioline salate.
«Non sei più l’imenottera aculeata eusociale di cui mi ero innamorato, tu non mi ascolti più!» sentenziò Cicala battendo un pugno sul tavolo e schiacciando un pezzo di melone.Formica non poteva ribattere.
«Tutto questo cibo in giro è il segnale che qualcosa tra noi non va! » continuò affrontando la crisi «C’è chi mangia perché ha carenza di affetto, ma tutto quello che raccogli non lo assaggi nemmeno, cosa ti sta succedendo?»
Ancora una volta Formica non seppe cosa rispondere.
«Rispondi!» imperò Cicala, alterandosi come ogni maschio che non riesce ad ottenere attenzione.
Allora Formica rispose ma non fu lei a parlare, fu il suo istinto.
«Guardati ! Mi ciondoli per casa in ciabatte, sporchi ovunque, non aiuti nelle pulizie, lasci sempre l’asse del water alzata, ti lavi poco e soprattutto non raccogli la legna e le provviste, cosa faremo quando arriverà … L’Inverno?»
Cicala prima si stupì, poi ribollì di rabbia e poi scoppiò a ridere a crepa carapace.
«Ah? L’inverno? Credi ancora nelle fiabe per fuchi? L’inverno non esiste!»
« Non esiste? Non lo vedi come si accorciano le giornate? E come tutti coloro che prima erano nervosi e affannati sono diventati ancora più frenetici e più intolleranti ? Non lo senti nell’aria che qualcosa sta cambiando!»
«Forse che si, forse che no!» rispose Cicala sfidandola con le mani ai fianchi
«Ma la foresta è sempre la foresta, i suoi fiori ci nutriranno e le sue acque ci disseteranno tutte le volte che vorremo! Ora basta con tutto questo cibo!»
prese un pezzo di cacio e lo lanciò contro il muro «Domani sera chiameremo tutti i nostri amici e faremo un grande banchetto per liberarci di queste schifezze!»
Formica non pensò al fatto che nessuno di loro due avesse amici, altrimenti forse non avrebbe reagito in quel modo: prese il violino di Cicala e lo lanciò fuori dalla finestra.
«Vattene dalla mia vita!» strillò spalancando la porta di strada con una zampata.
Cicala raccolse l’archetto e se ne andò, insultando la natura che l’aveva fatto bello, impossibile e dannato, destinato a incontrare sempre e solo donne che non lo capivano per niente.
Passarono le settimane e Formica divenne cupa e laboriosa, le sue mandibole tanagliate si fecero più forti, così da poter staccare pezzi di legno con cui ampliò la sua tana e creò tante altre stanze: una cantina per il vino, una dispensa per i formaggi, una taverna col biliardo, una legnaia e un paio di magazzini con il soppalco.
Fu l’autunno che fece temere a Formica di aver esagerato.
Era vero, soffiava forte il vento e certi giorni la pioggia avrebbe allagato la sua tana se lei avesse aperto la porta, ma nella foresta c’era ancora tanto cibo e Cicala sugli alberi continuava a frinire il suo bellissimo canto.
A volte, quando lo ascoltava, il cuore ancora le batteva e tornava a ricordare tutti i bei momenti perduti, ma erano troppo diversi per stare assieme.
L’inverno calò con un fiocco di neve come bianco ambasciatore, si posò a terra e il suo silenzio fu il segnale che miliardi di altri fiocchi stavano aspettando.
Ricoprirono con il loro abbraccio tutto ciò che toccarono, cambiando il volto alla foresta, stritolando ogni filo d’erba e rendendo la terra più dura della pietra.
La pietra in compenso restò pietra, ma ghiacciò diventando molto più scivolosa.
Formica sedeva davanti al camino guardando il fuoco; forse era stata troppo dura con Cicala, si diceva.
Alla fine era uno sfaticato perdigiorno e nella vita bisogna pensare sempre al futuro, ma in quella casa c’erano provviste a sufficienza per entrambi, forse con il tempo lui avrebbe potuto cambiare magari diventare più responsabile e più maturo.
Andò alla finestra del piano di sopra, il balcone era quasi sommerso dalla neve, fuori era buio e non si vedeva niente.
«Dove sei Cicala ?» chiese con il cuore che batteva d’angoscia.
Tre botte alla porta gli fecero eco.
Formica si precipitò giù per le scale.
«Chi è?» domandò.
Un violino stonato stridette, gelido come l’aria che passava da sotto la porta.
«Chi è?» ri-domandò, anche se ormai lo aveva capito.
«Ti prego apri la porta!» disse la voce di Cicala.
Ormai pareva un fantasma della calda voce melodiosa che sapeva corteggiare la primavera e intonarsi con l’armonia dell’estate.
«Ho scavato tanto nella neve per arrivare sin qui e ora mi sento morire! Aprimi. Lasciami entrare!»
Fu allora che Formica si ricordò di aver già sentito una storia simile quando era piccola, e in due varianti per giunta.
Nella prima, la formica non apriva la porta e la cicala restava congelata come un bastoncino di merluzzo; troppo macabro per due che un tempo si erano amati.
Nella seconda la formica e la cicala passavano l’inverno assieme, magari parlando poco, con lui che invece di andare in letargo restava sveglio sino a dicembre per guardare la boxe, alla fine però sopravvivevano entrambi.
Si decise, girò la chiave e aprì la porta a Cicala, alla neve e alla terza variante della storia che ancora non conosceva.
Cicala le cadde tra le braccia.
Formica la sorresse appena in tempo.
Appena in tempo per venir infilzata dal lungo pungiglione di Cicala che trapassandole il torace le giunse dritto sino al cuore.
Cadde all’indietro e non si mosse mai più.
Cicala rinfoderò il pungiglione, lanciò il violino nel fuoco e si chinò sul corpo inerme di Formica iniziando a divorarlo.
(Illustrazione Originale di Caterina Bellato©)