Lake

“Il lavoro rende liberi.”
Questo è ancora un campo di concentramento…
Ma cosa significa lavorare Charles?
Tu te ne resti lì con lo sguardo basso, come a controllare che la punta delle tue scarpe non prenda fuoco all’improvviso e io ti ripeto la domanda.
Cosa significa lavorare?
Se lavoriamo per guadagnare denaro e usiamo il denaro per comprare il nostro tempo libero, non è un po’ come se fossimo schiavi?
Mi piacerebbe fare un mestiere non un lavoro. Mi chiedi che differenza c’è?
Per me un mestiere è qualcosa che non smette mai di insegnarti ad ogni piccolo errore, che ti gratifica in base allo sforzo, anche quando va male. Cresce con te, il mestiere.  Il mestiere ti forma il lavoro invece… Beh, al massimo ti può deformare.
Non vorrei mai essere della misura di un cartellino, strisci dentro e fuori da un ufficio, dall’abitacolo di una vettura, da una telefonata all’altra. Quali prospettive ti può dare oltre a quella di guadagnare di più?
Ti piacerebbe guadagnare abbastanza da non dover più lavorare in vita tua?
Se il mio lavoro fosse un mestiere probabilmente no.
Un mestiere Charles, qualcosa che hai sempre sognato di fare, qualcosa per cui sei portato dalla nascita, mi capisci?
Ti piace pescare? A me piace molto pescare. Mi immagino anche adesso seduto sulla riva di un lago, su un molo basso, l’acqua è mansueta e il cielo sta ancora travasando il giorno nella sera, è l’ora in cui l’aria si mescola, sfuma la luce e arrivano i profumi. Lo senti, l’odore delle alghe tra il fango, il ginepro e le corde bagnate? C’è anche il profumo di un pasto che si spande nel mondo da una finestra lasciata aperta.
Accade così ogni giorno e intanto il galleggiante vaga lento sull’acqua, in quel movimento così ordinato e silenzioso io mi perdo. Ascolto il mondo e il mondo mi ascolta.
Accanto a me c’è un secchio con del pesce, due o tre carpe, non me ne servono di più.
Una per oggi, una per domani e una da scambiare per una bottiglia che la sera mi tenga compagnia. All’improvviso arriva un uomo, mi si inginocchia alle spalle e mi dice che più pesce prendo più cose posso permettermi. Io gentilmente gli sorrido e gli rispondo che non mi interessa ma se vuole posso regalargli un pesce. Lui mi poggia una mano sulla testa e dice che ha comprato il molo, domani comprerà il lago e che adesso volente o nolente sto pescando per lui.
Si prende il mio secchio e mi dice che a fine mese mi spetterà un compenso in denaro.

Prima di andarsene però aggiunge che il mio compenso e il privilegio di sedere dove sono seduto ora me li devo guadagnare pescando meglio, pescando più in fretta, pescando di più.
Il giorno dopo arrivo al molo di buonora ma non ci sono più soltanto io, ci sono altre persone con canne di ogni tipo – lanciano la lenza, recuperano la lenza come animali meccanici. Intanto l’acqua si è fatta torbida e in quell’intrico di ami centinaia di pinne ingannate si dibattono ovunque.
Mi devo muovere se voglio che resti qualcosa anche per me. Così mi concentro, mi concentro al punto che non sento più il ginepro o le alghe, sento solo il suono del mulinello che ronza e le bestemmie intorno a me mormorate a bassa voce per non disturbare.
Più riempio il secchio più rapidamente il secchio si svuota.
Ed è questo il problema: che mentre faccio ciò faccio non comprendo più il motivo del mio agire.

Non so più a cosa servono le mie carpe, le mie trote e i miei lucci, non so dove vanno e non so nemmeno il perché, so solo che non sono per me. E sento che sia a loro che a me è stata tolta la dignità di essere.
E un po’ alla volta inizio ad odiare gli ami, le esche, gli odori e le viscere ma non posso fermarmi, se mi fermo dove vado? E cosa ne sarà di me?
Vorrei che si potesse rallentare tutto, sedersi e parlare. Ritrovare il profondo senso delle azioni dietro a questo rituale meccanico che per tutti è ormai così naturale da non essere più minimamente in discussione.  Non so bene cosa mi sto perdendo ma sento che mi manca.
Infondo uno agisce per esistere e non viceversa.
Lasciate che sia la mia ambizione e non il mio dovere lanciare la lenza.
E’ un grande lago, c’è pesce per tutti.
Alza gli occhi dalla punta delle scarpe Charles, sollevali e guarda. Guarda questo lago e le sue sponde calpestate. Guardalo e parlamene a lungo. Parlamene sin quando non ci ricorderemo com’era prima.

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As long as we last

 

Scena 4

(Una baita di montagna, Adamo siede alla scrivania, c’è una macchina da scrivere e risme di carta, un cestino pieno e fogli sparpagliati un po’ ovunque. Fa freddo, il camino crepita al risparmio, lampade ad olio riflettono sulle finestre appannate, è quasi sera. Si sente il suono di un generatore a benzina. E’ l’ultimo giorno prima della fine del mondo.)

ADAMO: (Tra se) Si concluderà con una pagina bianca…

(Entra EVA con una fascina di legno tra le braccia, richiude la porta e la sistema accanto al camino)

ADAMO: Com’è fuori?

EVA: Viene a neve.

ADAMO: Ha nevicato due giorni fa…

EVA: Questa mattina la neve si è sciolta. Entro mezzanotte nevicherà di nuovo.

(EVA sistema la legna sul fuoco con attenzione. ADAMO si stiracchia sulla sedia. Si alza, va alla radio, l’accende. Si sente solo rumore bianco, passa tutti i canali scegliendo un rumore tra i tanti)

ADAMO: Sembra Chopin… No?

EVA: Sembra.

(Pausa – Ascoltano la radio. Il generatore inizia a scalciare poi si quieta di nuovo. ADAMO spegne la radio.)

ADAMO: Se ti dicessi che ho sbagliato tutto, mi crederesti?

EVA: Ti crederei…

ADAMO: Eri con me quando è successo.

EVA: Per favore non me lo ricordare.

ADAMO: Com’è che abbiamo lasciato che accadesse?

EVA: Eravamo giovani o forse non eravamo affatto…

ADAMO: Non eravamo cosa?

EVA: Tu cosa volevi essere?

ADAMO: Innamorato.

EVA: Così, semplicemente?

ADAMO: Già.

(ADAMO si alza, le prende le mani. Si appoggia la mano di lei sul cuore. Pausa)

EVA: Sembra Chopin…

ADAMO: Sembra.

(Buio – Musica)

(Da – As long as we last)

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Lungs

Un colpo ai polmoni e uno al fegato, così si contrae quest’epoca.
Si contrae come una malattia. Una delle tante che ci hanno segnato, corpo o anima, che sia…
Un colpo ai polmoni e uno al fegato.
Una sigaretta o un bicchiere. Se mezzo pieno o mezzo vuoto è comunque metà
Un colpo al fegato e un colpo ai polmoni. Sigarette: normali, light, senza filtro, al mentolo, elettroniche. Che forse fa meno male. Almeno. Meno male che forse poi alla fine smetto quando voglio.
Un colpo ai polmoni e uno al fegato. Il cervello è in prima linea, nella battaglia delle ombre colorate. Il cervello è tra le mani, mani adulte che lo legano al banco, mani di insegnanti, che versano, secchi di nozioni. Il cervello è a mollo nella sua scatola e il liquido spinale e discioglie immagini come analgesici.
Culi, tette, calciatori, auto, stira, fatti la croce.
Culi, tette, stira, cucina, calciatori, omicidi, fatti la croce.
Culi, tette, colori, birra, stira, risotto, stupro, fatti la croce.
Un colpo ai polmoni e uno al fegato. Un colpo per la notizia, un colpo in banca, un colpo sparato nelle tenebre dal tuo vicino. Troppo, troppo vicino, dal televisore accanto al tavolo, accanto al pasto caldo che ti ristora e prega per chi non ce l’ha.
Hai paura, prega. Prega “culi tette colori birra stira pulisciti sorridi calciatori fatti la croce”.
Come stai?
Un colpo ai polmoni e uno al fegato.
Buonanotte, buongiorno, buonasera, benvenuto. Togli la camicia, leva i pantaloni, togliti le scarpe, siedi su quel lettino. Respira, grande. Se lo stetoscopio è freddo serve per farti sentire a casa.
E giù col martelletto dai polmoni al fegato.
Fai più sport, bevi di meno, smetti coi vizi, perché io ti amo. Perché dio ti ama. Perché tua madre, se ancora c’è, ti ama. Ti amano tutti. Ti amano un po’ a casaccio ma Cristo ti ama e Cristo ti amano tutti.
Ti amo. Ti amo. E ti amo.
Ti amo ma non crederci troppo.
Ti amo ma non conosco ancora tutti.
Ti amo ma ho problemi di memoria e fatico a ricordare perché.
Ti amo ma mi ha distratto un passante, un figlio, un tubo colorato sullo scaffale.
Ti amo perché ti amo e ti amo per passare il tempo.
Ti amo con le canzoni e le poesie degli altri, che sembrano tutte scritte da me, per me, per te, per noi.
Noi ci amiamo. Più di loro. Meglio di loro. Per la prima volta. Mai così. Competitivi nel dare e nel ricevere.
E un colpo ai polmoni e un colpo al fegato. Più di uno poi quando finisce.
Via dalla bolla felice, tutti nel grande vuoto, tutti a caccia di oggetti. Costi quel che costi. Quanto costa questo? Dieci, cento, mille e non più mille, miei e non più miei, tuoi e tuoi per sempre e un po’. Oggetti venduti, regalati, consumati, spostati o gettati.
Oggetti ovunque. Reali o virtuali che siano. Oggettivamente, quest’epoca è un porcile.
La bella discarica incantata. E tutti insieme a bere, come per magia, alla discarica il sabato pomeriggio.
Un colpo…
Lavora. Che ti serve. Di più. Lavora che l’esistenza è tanta da colmare. Lavora, che lo fanno tutti.
E se non lo facesse nessuno?
Non pensare, lavora.
Se ti venisse voglia di camminare scalzo sul prato, tu lavora.
Se ti venisse il dubbio di avere ragione quando desideri il vento, tu lavora.
Se ti venisse il pensiero che ti aspettano a casa… lavora.
E potrai tornare.
Al prato, al vento, a casa.
Costa tornare.
Costa tempo.
Tempo, tempo, tempo.
Sacrificio, devozione, impegno.
Carta, carta, carta.
Asso, Cinque, Fante.
Carta, carta, carta.
Igienica, assorbente, d’identità
Carta, carta, carta.
Da forno, da parati, da bara.
Carta.
Canta.
Canta ma con discrezione!
Non per la strada.
Non troppo forte.
Non Stonare.
E io ingoio il canto
Ingoio il canto…
E’ forse questo che mi fa pensare male?

The Drifter

“Ci sono periodi nella vita in cui nulla gira per il verso giusto. Si alternano a periodi in cui le cose vanno malissimo e successivamente sfociano in altri nei quali tutto va ancora peggio. Al termine di questa incredibile concatenazione di eventi ci spettano un paio di giorni nei quali ci sentiamo Dio ma sfortunatamente nessuno se ne accorge.”

Era il 24 di giugno e io realizzai solo durante il caffè di essermi svegliato senza l’Inghilterra.
Il referendum si era consumato nella notizia, il telegiornale mi sbatteva in faccia la tragedia delle borse e il ventilatore da soffitto continuava a ronzare imperterrito con scatti regolari, spostando fiaccamente piccoli volumi d’aria calda da una parte all’altra della stanza. Era innegabilmente una primavera di città, in una calda cucina soffocata a forza tra bianchi muri piastrellati e la tovaglia di plastica lavabile si appiccicava agli avambracci sudati.
I britannici fuggivano l’Europa e l’Europa si risvegliava sgomenta e abbandonata dopo una relazione a distanza che non aveva mai funzionato davvero.
Pensai che questo fosse davvero un secolo strano, dove tutti si mettevano insieme e poi si lasciavano senza pensarci troppo. Da piccoli giocavamo al gioco delle sedie adesso ci toccava quello delle coppie. Da qualche tempo, tra i miei amici d’infanzia, aveva preso piede la moda di abbandonare la partita e sposarsi. Li incontravo vivacchiare nell’attesa tacita di una serata libera nella quale fingere di non averlo fatto e silenziosamente mi dispiaceva per loro.
Accanto alla macchina del caffè tenevo una di quelle famose scatole in metallo, quelle dei biscotti al burro che da sempre ingannano con il loro contenuto di bottoni, aghi e fili da cucito. Probabilmente le nonne di tutto il mondo avevano stipulato un accordo segreto per abituarci sin da piccoli alla delusione e alla disillusione.
“Caro nipotino, questa scatola è l’esatta metafora delle persone che incontrerai… Ma non avere fretta di aprirla, il crollo delle aspettative è un traguardo che si matura soltanto con l’età.”
Avevo comprato quella scatola perché la cassiera del supermercato era carina. Era stato un tentativo inconscio e pittoresco di cambiare il mio destino e inoltre non mi andava di presentarmi a lei semplicemente con due birre una confezione di lamette da barba.

Sull’autobus vero casa un anziano signore mi aveva raccontato di come aveva conosciuto sua moglie: un amore nato sui banchi di scuola e morto in pace due anni prima. Per avere qualcosa da rispondere gli avevo parlato della cassiera, lui aveva sputato su un fazzoletto rispondendo che innamorarsi di una sconosciuta era un po’ come andare a una mostra di quadri il giorno dell’inaugurazione. Si arriva pieni di aspettative, si fa un la fila, ci si agita tra la calca, si sgomita, si spinge, ci si impregna degli umori degli altri e alla fine non si riesce a vedere niente di quello che di sperava di vedere. Per non avere sorprese quando si vuole avere a che fare con un’opera d’arte o con una sconosciuta, è molto meglio pagare un biglietto d’ingresso.
Ma il mio pensiero era troppo limitato per comprendere le sottili dinamiche di malessere collettivo che disintegravano l’amore o portavano alla scissione tra un paese e un ideale mai condiviso. Mi limitavo a rigirare il cucchiaio nella terrina senza prestare particolare attenzione ad altro se non al suono del ventilatore da soffitto.
Fu allora che mi accorsi che l’insalata di pollo mi guardava.
Gli occhi erano olive e le sopracciglia foglie di lattuga, un capello appiccicato al bordo della terrina rendeva ancora più umana quella composizione.
Il vegetarianismo incrociò per un attimo l’esistenzialismo, i due si salutarono distrattamente e l’insalata di pollo tornò intatta nel frigo.

Prologo: Il Predestinato

“Impara l’arte o mettiti in disparte!”
– Nicolos Malacrusca


Il Bardo grasso mi guardava e io guardavo lui.
Purtroppo non era il frutto della mia immaginazione. Sembrava solo un grosso cocomero floscio e cascante infilato in una calzamaglia verde che non aveva alcuna pietà di lui.
Si voltò per svuotare la vescica contro una siepe, mostrando la schiena armata da un ingombrante trabiccolo fatto di campanacci, trombette, sonagli e una grancassa a pedale.
Quand’ebbe terminato di innaffiare le piante si asciugò le mani sulla casacca sudicia, imbracciò un liuto senza corde e si umettò le labbra preparandosi a cantare.
Io non potevo smettere di fissarlo.
Un alito di vento trasportò una piccola orda di foglie e cartacce lungo la via poi quel Bardo cominciò a battere le mani fuori tempo e cantò.
Fu un canto agghiacciante, la sua voce era un rantolo ingolato che faceva venir voglia di strapparsi via le orecchie dal cranio. Alcuni corvi terrorizzati si levarono dagli alberi fuggendo lontano.
Roberus mi si avvicinò posandomi una mano sulla spalla e con un sorriso sincero disse:
«Un giorno anche tu sarai così fratello mio, se ci crederai, se lo vorrai!»
Io non volevo essere così.
Quello non era un vero Bardo bensì un Bardone, un cialtrone improvvisato senza fissa dimora che non si era mai preso la briga di studiare e coltivare il proprio talento.
Io non sarei mai diventato come lui.
Io avrei frequentato l’Accademia per Bardi e anche se mio fratello non capiva la differenza, sarei diventato un Bardo con la B maiuscola, un vero artista, amato da tutti, istruito dai migliori e certificato custode dell’arte, quella più vera e più rara: l’arte di raccontare storie.

Maps

La Valpiovosa

“Che mondo andiamo viaggiando”

Nicolos Malacrusca, figlio di un mugnaio della Valpiovosa, aspetta il suo Grande Giorno, quello in grado di cambiargli vita: il giorno delle audizioni all’Accademia per Bardi.
Dopo l’esito disastroso di un provino incerto e pieno di imprevisti, non gli resterà altro da fare se non mettersi in viaggio assecondando le visioni di Roberus, il suo vulcanico e sconclusionato fratello che afferma di aver sognato un ricco tesoro ai piedi dell’arcobaleno
“Che mondo andiamo viaggiando” nasce dal mio incontro con la creatività e l’immaginazione di Gabriele Ruggiu. Insieme abbiamo sviluppato la trama di questa lunga fiaba e i suoi stravaganti personaggi.
L’idea alla base del libro è lo scontro frontale tra i sogni di Nicolos e il tracollo del modo fantastico che lo circonda. E’ un viaggio in una terra in piena decadenza che il progresso ha privato dei sogni, dei mostri e della magia e che si prepara ad abbandonare la fiaba per avviarsi a un assurdo declino.
Se gli eroi invecchiano, le creature fantastiche si estinguono, la burocrazia divora il mestiere degli eroi e svuota la tasche dei sognatori, ogni cosa inesorabilmente sbiadisce e si trasfigura mutando lentamente nella realtà che tutti conosciamo.
“Che Mondo Andiamo Viaggiando” è ambientato in un universo popolato da personaggi disorientati e assurdi che impazziscono senza rendersene conto e da altri che semplicemente vagano alla ricerca del loro posto in questo nuovo mondo.
Il risultato è qualcosa che si può descrivere come una fiaba “post-fantasy” imbottita di situazioni paradossali, la cui immancabile componente autobiografica mi ha spesso aiutato a diluire il peso delle molte assurdità che mi è capitato di incontrare.

A clown story

 

Tornavo a casa.
La serata era finita e un altro giorno era andato a posarsi nel sepolcreto del tempo sprecato in attesa di concludersi con il sonno pesante e i sogni a seguito come titoli di coda.
Quella notte, nella sua fatale assurdità, aveva ancora qualcosa in serbo per me.
Sfrecciavo, per quanto concesso ad una vecchia Skoda dell’ottantadue, lungo una stretta strada di campagna e solo i fari dei veicoli che incrociavo mi riscuotevano da quel torpore pericoloso che mi sussurrava di chiudere gli occhi e non pensarci più.
I corpi dei grossi alberi a macchie, piantati come pilastri ai bordi della strada scivolavano via veloci. Abbassai il finestrino, l’aria era gelida e densa dell’odore di pioggia e foglie bagnate, qualche lembo di nebbia si scioglieva una volta attraversato, proprio come gli spettri.
Mi concessi una lunga sorsata da una bottiglia di whiskey che tenevo sul sedile del passeggero e dalla radio la chitarra di Bo Diddley iniziò a gracidare le prime note di “You don’t love me”.
Reclinai la testa all’indietro il sedile mi accolse con uno scricchiolio di molle arrugginite.
Ero andato in quel dannato locale soltanto per rivederla. Avevo aspettato tutta la notte, seduto al tavolo da solo, sorseggiando rum da quattro soldi. Il ghiaccio si scioglieva nel bicchiere permettendomi di prolungare quell’agonia pregna di fumo e di memorie.
Lei non si era fatta vedere se non poco prima dell’ora chiusura, con quel vestito che le avevo regalato io, accompagnata da quell’idiota di Carl.
Quel miserabile sfigato. Quando eravamo piccoli gli avevo rubato la bicicletta e ora lui si prendeva la donna dei miei sogni.
Accelerai, nella speranza che la giustizia divina mi attraversasse la strada.
Dovevo mandarle un messaggio e dirle che avevo scoperto tutto. Alla fine era il mio mestiere, no? Cosa si aspettava? Che non lo venissi mai a sapere?
Un investigatore privato ridotto a indagare sulla sua ex ragazza per conto di se stesso… Che schifo!
Diedi un pugno al cruscotto e Bo Diddley smise di lamentarsi per tutti e due.
Andassero all’inferno lui, lei e tutto lo spregevole campionario umano.
Un ultimo sorso mi bruciò nella gola e mi diede il coraggio che stavo cercando: buttai il telefono cellulare, la bottiglia vuota e tutte le mie speranze dal finestrino, restando solo con la mia sbronza e i miei rancorosi pensieri.
Pensieri che non mi avrebbero dato pace se non avessi visto quell’ombra.
Fu il tempo di un attimo ma il mio piede aveva già cambiato pedale.
La gomma dei copertoni scivolò stridendo, cercando di aggrapparsi disperatamente all’asfalto viscido mentre inchiodavo brutalmente. L’auto si fermò immobile al centro della carreggiata.
Nello specchietto retrovisore vidi che la figura era reale e che si avvicinava claudicando, a braccia alzate per richiamare la mia attenzione.
Lo guardai. I larghi pantaloni rossi, i guanti bianchi e il volto truccato in modo inconfondibile, notai anche l’orribile parrucca di riccioli gialli.
Mi passai una mano sul viso.
Quello che si avvicinava alla mia macchina era senz’ombra di dubbio un clown.
Pensai di riaccendere il motore e ripartire subito ma conosco il codice della strada.
Omissione di soccorso, articolo 189 commi 6 e 7.
Pena: fino a tre anni di galera e una multa troppo salata per me.
Raggiunse il finestrino dal lato del passeggero e iniziò a picchiettare con insistenza.
Lo guardai ancora.
Non aveva l’aria buffa o felice ma letteralmente sconvolta.
Era tutt’altro che divertente mentre mi parlava.
Abbassai il finestrino quel tanto che bastava per udirlo… balbettare.
Biascicava parole sconclusionate: incidente, fosso, auto ribaltata, chiamare aiuto, avevo un cellulare?
Scossi il capo guardando dritto dinanzi a me la strada illuminata dai fari.
Aprì la portiera e senza chiedere permesso salì.
Era sotto shock e puzzava di vino e sudore.
Forse disse qualcosa ma non ricordo bene.
Cristo se avevo bevuto.
Ripartimmo.
L’orologio sul cruscotto segnava 04:37.
Il riscaldamento pompava aria calda soffocandoci.
La testa di quel pagliaccio dagli occhi pinti pendeva sulla spalla sinistra, fissandomi come se fosse impagliato.
Poi dalle labbra scarlatte uscirono suoni e rantoli in una lingua che mi parve sconosciuta.
Non riuscivo a capire cosa volesse, forse erano domande alle quali risposi con sordi mugugni e un sorriso forzato.
Disse che il suo nome d’arte era Pandoro e che era sbandato tornando da una festa.
Lo ripeté più volte.
Poi scese uno strano silenzio rotto soltanto dai suoi gemiti e dai suoi deboli colpi di tosse.
Trascorse un tempo insensato nel quale ogni movimento che tentavo, anche il più semplice come scalare le marce, mi sembrò inquinato di goffaggine.
I rari lampioni che apparivano di tanto in tanto al lato della strada non mi aiutavano a sentirmi tranquillo.
Cosa diamine mi era preso?
Dovevo tirare dritto e basta.
All’improvviso si alzarono dei sospiri gorgoglianti e dolenti.
Il mio cuore iniziò a battere selvaggiamente.
Le mani tremavano.
Non riuscivo a guardarlo.
Non volevo vedere la sua faccia.
Lentamente allungai un dito per accendere la radio.
Non arrivava alcuna frequenza solo rumore.
Raschiante.
Continuo.
Graffiato.
Poi un colpo sordo, qualcosa aveva attraversato la strada, forse una lepre.
Non mi potevo fermare.
Cercai a tentoni una sigaretta dal pacchetto accanto alla leva del cambio.
Non osavo invadere lo spazio che ci divideva.
La misi in bocca senza nemmeno accenderla.
Lo spiai con la coda dell’occhio, un rivolo di sangue scendeva lungo la guancia e i suoi occhi fissi davanti a sé, avevano assunto una luce maligna e sadica.
La visione mi spinse a prendere una folle corsa. Ignorai ogni segnale, ogni semaforo e ogni regola del buon senso, sin quando alla mia destra non apparve una strada senza luci. Sterzai di colpo.
Era uno sterrato con buche e sassi che scricchiolavano sotto i copertoni.
Mi fermai.
<< Forza, scendiamo!>> disse una voce nell’abitacolo.
Ma non era stato lui a parlare, ero stato io.
Gli diedi uno spintone, la portiera si aprì e il mio passeggero cadde fuori dalla macchina.
Ancora una volta non riuscii a capire le sue parole.
Mentre raccoglievo un grosso ramo dal lato della strada lui iniziò a correre goffamente, impicciato dal vestito e dalla caviglia, forse slogata.
Lo raggiunsi con facilità.
Colpendolo più e più volte alla testa e alla schiena scaricai tutta la mia rabbia, l’inquietudine e l’angoscia accumulate lungo il tragitto.
Lo legai a un albero con degli elastici che tenevo nel bagagliaio e mi sedetti a guardarlo.
La testa mi girava e mi faceva un gran male e tutto quel suo urlare non faceva che peggiorare la situazione.
Posai il bastone.
Gli feci cenno di tacere.
Gli risistemai la parrucca.
Montai in auto e ripartii.
Spensi la radio.
L’orologio segnava 5:02.
Accesi la sigaretta.
Sospirai.
Mi sentivo bene.
Non m’importava più di nulla.
Avevo sempre avuto il terrore dei pagliacci.
Non sapete quanto mi conforti ora sapere che al mondo ce n’è almeno uno che ha paura di me.

 

 

La vita di Johan

Parte I

Ci chiamano Divulgatori. Si dice che il termine provenga da un vecchio racconto del secolo scorso. Purtroppo è andato perduto così come Shakespeare o Dostoevskij e dubito avremo mai la possibilità di sapere cosa pubblicizzavano quei vecchi libri.
Essere in grado di leggere è vietato dal Codice, a meno che uno non abbia compiuto studi appositi, in alternativa si può solo ascoltare o guardare video e immagini.
Siamo pagati per offrire un servizio ai cittadini: chiunque abbia un figlio, ha diritto a un Divulgatore, tre sere a settimana.
Abbiamo un vasto campionario di libri e il cliente può scegliere un titolo a piacere tra quelli autorizzati o lasciarsi consigliare.
Leggiamo ogni genere di volume, da quelli sponsorizzata dalla RealCola a quelli stampati dalla Veggy Queen, la famosa catena di fast food dietetici.
Ogni fiaba, ogni racconto, ogni storia è legata al suo prodotto specifico di riferimento, così il bambino può scoprire sin da subito cosa gli piace davvero.
Una delle più richieste è Cappuccetto Cola. E’ la storia di una bambina che porta alla nonna una RealCola dietetica. Nel bosco, il sole e la camminata fanno si che lei si scoli la bibita per la nonnina. Divorata di colpa, trova un magico distributore automatico di bibite di sottomarca. Così ne compra una, la versa nella lattina vuota e gliela porta. La nonna muore di diabete due giorni dopo.
E’ il modo migliore per fare capire ai bambini che non si scherza con la qualità dei propri beni di consumo. A questo servono le fiabe, no?

[…]

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Formica e Cicala

La Stagione era appena nata.
Prima, vera, stagione.
L’aria diveniva limpida e il sole si posava caldo e immobile sulle cose, risvegliandole da quel torpore grigio e dimenticato, sgretolando la pelle morta di un inverno appena passato.
Sotto di essa rinascevano fiori, frutti e insetti.
Soprattutto insetti.
Formica si stiracchiò e sbadigliò, l’odore pungente del bosco era strisciato da sotto la piccola porticina del suo monolocale in affitto, per dirle che il lungo riposo era ormai terminato.
 Avvolse attorno al collo la sciarpa di seta bianca, regalo della nonna, calzò tre paia di ciabatte identiche e uscì nella radura. 
Era la sua prima primavera fuori dal formicaio familiare e della vita non sapeva quasi nulla, era così emozionata che le tremavano le antenne.
 Lo stupore e la meraviglia di una formica sono talmente grandi che non si possono descrivere, quindi dirò soltanto che rimase immobile a bocca aperta sin quando le mandibole non iniziarono a farle male.
Era tutto come aveva sognato, solo quel tappeto d’aghi di pino la inquietava un po’: c’era il rischio di mettere una zampa su qualche goccia di resina e restare invischiati, per poi ritrovarsi dopo milioni di anni esposti nella teca di un museo di provincia.
Lo zio Bill diceva sempre che se si vuole cambiare la propria vita un po’ bisogna rischiare, ed era salito su una grande nave diretta oltre l’oceano.
Nessuno aveva più avuto sue notizie, ma solo perché le formiche non sanno scrivere e soprattutto non arrivano a imbucare le cartoline.
Facendo attenzione a dove metteva le zampe si avventurò tra i funghi severi e le radici degli alberi coperte di muschio soffice.
 “E’ tutto così enorme e maestoso!” pensò.
Vide una grande pigna masticata immobile tra l’erba, dall’alto le voci degli scoiattoli si complimentavano l’un l’altro per l’eccellente spuntino.
 Udì ronzii, gracidii, sfarfallii, scalpiccii, cinguettii e in un istante s’accorse che la foresta era viva di suoni.
Uno stridere convulso, un susseguirsi di richiami tra le fronde abbaglianti, ma tra tutto questo spiccava una musica; un canto melodioso che pareva l’anima stessa della vita in festa.
Formica si fermò ad ascoltarlo.
Accanto a lei, curvo e intabarrato nella sua scorza luccicante, un verde maggiolino andava di fretta a testa bassa.
«Mi scusi, posso chiedere? » fece la formica alzando una zampetta.
«No, no! Non ho tempo!» grugnì quello passando oltre.
Formica ci rimase male «Che gran cafone.» pensò.
La musica serpeggiava tra i rami spandendosi sempre più forte e Formica era sempre più curiosa di sapere chi fosse l’artista in grado di suonare con tanta maestria.
Provò a chiedere informazioni a un lepidottero balbuziente, a un ragno elegante nel suo completo gessato, a un oryctes nasicornis che la caricò e la mise in fuga, a una farfalla dalle ali color del cielo, ad un’ape ronzante dal minaccioso pungiglione ma tutti erano così indaffarati che non si degnarono nemmeno di ascoltarla così come parevan sordi al misterioso canto.
 Nessuno le rispose.
Stava iniziando a domandarsi se la foresta fosse davvero il luogo giusto dove vivere quando un rumore alle sue spalle la fece voltare di scatto: Cicala sedeva su un pezzo di corteccia con il violino in mano, intento a impeciare l’archetto.
Formica si avvicinò e lo salutò timidamente, già pronta alla fuga visto i precedenti.
Questi sollevò i grandi occhi color cicala, ma molto vispi, e sorrise chinando gentilmente il capo.
«L’avete sentita anche voi quella musica soave?» domandò Formica con i peli dell’addome che formicolavano, è proprio il caso di dirlo, per l’emozione di aver trovato finalmente qualcuno con cui parlare.
«Non solo l’ho sentita.» rispose Cicala «Essa è frutto del mio cicalio!»
Alzatosi veloce in piedi e scostato il mantello d’ali, Cicala intonò il suo canto accompagnandosi con il lamento armonioso dello strumento.
 Formica lo trovò così affascinante che per poco non svenne.
Restarono così sino a sera: Cicala che suonava, contento di aver finalmente trovato qualcuno disposto ad ascoltarlo, e Formica ammaliata dall’aver incontrato qualcuno che finalmente si lasciasse ascoltare.
Inutile dire che tra i due nacque un amore devastante, di quelli così immaturi e inconsapevoli da far roteare le antenne, di quelli dove ognuno sta bene così e dell’altro nemmeno s’accorge. Ma che gioia non esser più soli!
Durante il giorno Cicala suonava e Formica un po’ ascoltava e un po’ danzava, goffa, perché già è difficile con due, figurarsi con sei zampe…
Si divertivano un mondo ed erano felici, e nulla importava se tutti gli altri insetti scuotevano il capo o urlavano «Sfaticati!»
La sera facevano lunghe passeggiate sotto la luna e Cicala parlava dei loro futuri viaggi, di cosa le avrebbe regalato una volta arrivato il successo, vantandosi della propria musica e lamentando spesso le poche possibilità concesse ad un insetto di registrare un doppio cd live, un problema non da poco, visto che quel prodotto vende tantissimo.
Formica ascoltava incantata e tra una fantasticheria e l’altra le giornate si allungarono. L’estate crebbe nel grembo umido della primavera e poi esplose con la sua calura che bolliva i funghi e prosciugava l’acqua delle pozze.
La terra prese a scottare come se avesse la febbre e il bosco si riempì di asciugamani e tovaglie colorate che quelle strane creature chiamate turisti stendono sull’erba prima di mettersi a mangiare.
Cicala ogni giorno suonava caparbiamente per loro, ma nessuno pareva ascoltarlo.
Formica cercava di attirare l’attenzione, invano, rischiando spesso di essere schiacciata.
Poi, un giorno, mentre sgambettava su una tovaglia di plastica rossa e gialla, tra una bottiglia di the freddo e un vasetto di yogurt, trovò un’enorme briciolina di pane profumata e croccante.
Fu allora che qualcosa in lei scattò. Qualcosa che risiede più nell’istinto che nell’esperienza acquisita nei lunghi giorni di vita da imenottero. Si sentì scombussolare tutto d’un tratto. Si lanciò a capofitto sulla briciola e l’afferrò, sollevandola senza fatica iniziò a correre.
Non aveva mai rubato prima d’ora.
Scappò.
Corse, corse, corse, sfilando accanto a Cicala che intento in una toccata non si accorse della sua fuga.
Arrivò al piccolo monolocale, aprì l’armadio e ci cacciò dentro la briciola.
Solo allora si fermò a rifiatare confrontandosi con lo strano e recente pensiero che gliene servissero molte altre.
Guardò il calendario, era la fine di agosto.
Per qualche motivo, nonostante all’interno della tana il termometro segnasse trentaquattro gradi, Formica iniziò a tremare.
Quando Cicala tornò a casa la sera, iniziò ad esporle il suo nuovo progetto di musica concettuale per calabroni ed affrontò il problema di trovare una nuova muta di corde, economiche ma resistenti.
Presa dal suo solito monologare non s’accorse che Formica, turbata, aveva apparecchiato sulle sedie. Si sedette sulla zuppa e i due litigarono. Cicala uscì sbattendo la porta urlando che andava a comprare le sigarette.
La mattina dopo Formica si svegliò presto e il suo primo pensiero non fu per Cicala, che le dormiva accanto a pancia all’aria dopo aver scoperto che nel bosco non c’era un distributore nemmeno a pregare, ma per la briciola di pane.
Uscì di corsa: forse sei zampe ti impacciano quando balli ma quando corri sono proprio utilissime.
Raggiunse la radura dei pic-nic e si mise alla ricerca di cibo.
Qualsiasi cosa andava bene: un pezzo di polpetta, una fragola mezza mangiata, un seme di anguria ottimo da bollire.
 Non appena riusciva a impossessarsi di qualcosa, lo portava a casa e lo nascondeva nella dispensa.
Andò avanti così per settimane.
Lei e Cicala non parlavano quasi più e non dormivano nemmeno più assieme, perché la stanza da letto era tanto piena di cibo da non riuscire ad entrarci.
«Così non va!» disse Cicala quando vide Formica rincasare con un biscotto sulle spalle.
«Anf, Anf, Anf!» fece Formica posando il biscotto che rotolò e travolse una montagna di noccioline salate.
«Non sei più l’imenottera aculeata eusociale di cui mi ero innamorato, tu non mi ascolti più!» sentenziò Cicala battendo un pugno sul tavolo e schiacciando un pezzo di melone.Formica non poteva ribattere.
«Tutto questo cibo in giro è il segnale che qualcosa tra noi non va! » continuò affrontando la crisi «C’è chi mangia perché ha carenza di affetto, ma tutto quello che raccogli non lo assaggi nemmeno, cosa ti sta succedendo?»
Ancora una volta Formica non seppe cosa rispondere.
«Rispondi!» imperò Cicala, alterandosi come ogni maschio che non riesce ad ottenere attenzione.
Allora Formica rispose ma non fu lei a parlare, fu il suo istinto.
«Guardati ! Mi ciondoli per casa in ciabatte, sporchi ovunque, non aiuti nelle pulizie, lasci sempre l’asse del water alzata, ti lavi poco e soprattutto non raccogli la legna e le provviste, cosa faremo quando arriverà … L’Inverno?»
Cicala prima si stupì, poi ribollì di rabbia e poi scoppiò a ridere a crepa carapace.
«Ah? L’inverno? Credi ancora nelle fiabe per fuchi? L’inverno non esiste!»
« Non esiste? Non lo vedi come si accorciano le giornate? E come tutti coloro che prima erano nervosi e affannati sono diventati ancora più frenetici e più intolleranti ? Non lo senti nell’aria che qualcosa sta cambiando!»
«Forse che si, forse che no!» rispose Cicala sfidandola con le mani ai fianchi 
«Ma la foresta è sempre la foresta, i suoi fiori ci nutriranno e le sue acque ci disseteranno tutte le volte che vorremo! Ora basta con tutto questo cibo!» 
prese un pezzo di cacio e lo lanciò contro il muro «Domani sera chiameremo tutti i nostri amici e faremo un grande banchetto per liberarci di queste schifezze!»
Formica non pensò al fatto che nessuno di loro due avesse amici, altrimenti forse non avrebbe reagito in quel modo: prese il violino di Cicala e lo lanciò fuori dalla finestra.
«Vattene dalla mia vita!» strillò spalancando la porta di strada con una zampata.
Cicala raccolse l’archetto e se ne andò, insultando la natura che l’aveva fatto bello, impossibile e dannato, destinato a incontrare sempre e solo donne che non lo capivano per niente.
Passarono le settimane e Formica divenne cupa e laboriosa, le sue mandibole tanagliate si fecero più forti, così da poter staccare pezzi di legno con cui ampliò la sua tana e creò tante altre stanze: una cantina per il vino, una dispensa per i formaggi, una taverna col biliardo, una legnaia e un paio di magazzini con il soppalco.
Fu l’autunno che fece temere a Formica di aver esagerato. 
Era vero, soffiava forte il vento e certi giorni la pioggia avrebbe allagato la sua tana se lei avesse aperto la porta, ma nella foresta c’era ancora tanto cibo e Cicala sugli alberi continuava a frinire il suo bellissimo canto.
A volte, quando lo ascoltava, il cuore ancora le batteva e tornava a ricordare tutti i bei momenti perduti, ma erano troppo diversi per stare assieme.

L’inverno calò con un fiocco di neve come bianco ambasciatore, si posò a terra e il suo silenzio fu il segnale che miliardi di altri fiocchi stavano aspettando.
Ricoprirono con il loro abbraccio tutto ciò che toccarono, cambiando il volto alla foresta, stritolando ogni filo d’erba e rendendo la terra più dura della pietra.
La pietra in compenso restò pietra, ma ghiacciò diventando molto più scivolosa.
Formica sedeva davanti al camino guardando il fuoco; forse era stata troppo dura con Cicala, si diceva.
Alla fine era uno sfaticato perdigiorno e nella vita bisogna pensare sempre al futuro, ma in quella casa c’erano provviste a sufficienza per entrambi, forse con il tempo lui avrebbe potuto cambiare magari diventare più responsabile e più maturo.
Andò alla finestra del piano di sopra, il balcone era quasi sommerso dalla neve, fuori era buio e non si vedeva niente.
«Dove sei Cicala ?» chiese con il cuore che batteva d’angoscia.
Tre botte alla porta gli fecero eco.
Formica si precipitò giù per le scale.
«Chi è?» domandò.
Un violino stonato stridette, gelido come l’aria che passava da sotto la porta.
«Chi è?» ri-domandò, anche se ormai lo aveva capito.
«Ti prego apri la porta!» disse la voce di Cicala. 
Ormai pareva un fantasma della calda voce melodiosa che sapeva corteggiare la primavera e intonarsi con l’armonia dell’estate.
«Ho scavato tanto nella neve per arrivare sin qui e ora mi sento morire! Aprimi. Lasciami entrare!»
Fu allora che Formica si ricordò di aver già sentito una storia simile quando era piccola, e in due varianti per giunta.
Nella prima, la formica non apriva la porta e la cicala restava congelata come un bastoncino di merluzzo; troppo macabro per due che un tempo si erano amati.
Nella seconda la formica e la cicala passavano l’inverno assieme, magari parlando poco, con lui che invece di andare in letargo restava sveglio sino a dicembre per guardare la boxe, alla fine però sopravvivevano entrambi.
Si decise, girò la chiave e aprì la porta a Cicala, alla neve e alla terza variante della storia che ancora non conosceva.
Cicala le cadde tra le braccia.
Formica la sorresse appena in tempo.
Appena in tempo per venir infilzata dal lungo pungiglione di Cicala che trapassandole il torace le giunse dritto sino al cuore.
Cadde all’indietro e non si mosse mai più.
Cicala rinfoderò il pungiglione, lanciò il violino nel fuoco e si chinò sul corpo inerme di Formica iniziando a divorarlo.

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(Illustrazione Originale di Caterina Bellato©)

Abbiatene Cura (II)

“Di come la ruota della vita gira sempre e tu ti senti come il criceto grasso che non riesce a salire.”

Il sole spaccava in due la stanza, il disordine del mio ecosistema era un cimitero di lattine arroventate e tazzine di caffè il cui fondo zuccheroso era ormai diventato un tutt’uno con la ceramica.
Era la tarda mattinata di un sabato di Luglio insopportabile, ed era altrettanto insopportabile il fatto mancassero ancora tre ore alla mia esibizione in costume.
Il costume era composto da scarpe nere di stoffa, una tunica di lana cotta, una specie di pesante mantello di feltro e un cappello con il bordino di pelliccia appartenuta a qualche animale ignoto, morto per permettermi un’elegante e copiosa sudorazione.
Nell’ora più calda del giorno un’allegra comitiva organizzata di turisti americani sarebbe arrivata presso un famoso monumento della città per ammirarlo e sommergersi di autoscatti.
Questo nella mia vita accadeva ogni due giorni da quando un dirigente di una piccola agenzia turistica veneziana aveva avuto un’intuizione fulminante. A questo portatore di cravatte sulla cinquantina l’idea che dei turisti accaldati, fatti marciare a forza per le arterie della città, incontrassero un contrabbassista vestito in costume folkloristico doveva essere sembrato sufficientemente geniale da inserirlo nel pacchetto vacanze.
Ricordo ancora il giorno in cui entrai a far parte del parco offerte delle attrazioni a ore dell’agenzia Bassanio Touring come uno dei giorni più tristi della mia vita.
Mi ero presentato all’ufficio con lo strumento in spalla. Lo scambio con il dirigente, durato solo pochi minuti, mi aveva lasciato malinconicamente interdetto.
«Che strumento è quello?» Aveva esordito vedendo le dimensioni della custodia.
«Un contrabbasso.» Avevo risposto io.
«Pensavo fosse un sarcofago egizio.» Risata.
Risatina.
«E lo sai suonare?» Aveva domandato incrociando le braccia dietro la testa mentre si spaparanzava regale e senza cigolii sulla sua poltroncina in ecopelle presidenziale direzionale da ufficio di colore rosso veneziano.
Avevo affermativamente iniziato ad aprire il sarcofago ma lui mi aveva fermato subito, forse per paura della maledizione del faraone.
«Lo puoi usare per fare Bach?»
Potevo usarlo per fare Bach, d’altronde, come gli dissi, era uno strumento piuttosto versatile.
«Mi basta che mi garantisci che ci puoi fare Bach… Ti troviamo un bel costume del cinquecento e sei dei nostri!»
Volevo ribattere mettendo sul tavolo circa duecento anni di evoluzione della moda Europea ma l’uomo in cravatta era già partito con la sua visione.
«Sbucherai fuori all’improvviso da una porticina nascosta e suonerai per gli ospiti del tour. Perché questa è Venezia! Una città dove l’arte si può trovare ovunque!»
Per il costume non mi dovevo preoccupare, me lo avrebbero fatto avere la prossima settimana, per i dettagli e il pagamento avrei dovuto arrangiarmi con la segretaria. Mi strinse la mano mentre mi accompagnava alla porta e non lo rividi mai più.
Il giorno della prima esibizione, un ragazzo taciturno con un carretto mi consegnò uno scatolone che conteneva quel peculiare costume da mercante Veneziano. Il tutto era accompagnato da una busta timbrata con dentro una lettera e un contratto. Il contratto, che non ricordavo di aver firmato, mi caricava di ogni responsabilità circa la condizione del “Costume Bassanio Touring” da restituire come consegnato al termine del periodo di lavoro, mentre la lettera mi augurava buona fortuna spiegandomi che il costume riproduceva le fattezze di uno dei personaggi più celebri della storia di Venezia, il mercante Marco Polo. Quello mi retrodatava duecento anni prima dell’idea del dirigente e quattrocento anni prima della nascita di Bach. Capii che la coerenza era un altro dei beni primari che probabilmente non potevo permettermi.

 

Glorèn (draft)

Insieme all’illustratrice Caterina Bellato, siamo al lavoro per ricercare l’identità grafica di alcune fiabe.
Questa è una prima bozza creata oggi.
Gloren 2016

“Quando scrivo, le immagini mi attraversano la testa come pigri animali di passaggio, io provo solo a scegliere le parole che mi permettano di ricordarle.
Ciò che mi colpisce di  Caterina è la sua capacità di attuare il processo inverso: vedere le tracce di un’immagine intrappolata nelle righe di un racconto e restituirla con naturalezza al mondo a cui appartiene.”